La chiamano disruption ed è la modalità con cui, in un qualsiasi processo di creazione (sviluppo, produzione, creatività), interviene qualcosa che ne modifica le abituali dinamiche, con effetto dirompente e inaspettato. Un punto di rottura, un lampo che squarcia i cieli dei percorsi consolidati.
In ambito economico, risulta quanto mai centrata la definizione che ne dà Clayton Christensen, docente dell’Università di Harvard: «La disruptive innovation è l’effetto di una nuova tecnologia o di un nuovo modo di operare su un modello di business, che porta a modificare completamente la logica fino a quel momento presente nel mercato».
Per dare sostanza a questa constatazione, basti pensare a che cosa sia più vincente nella sfida competitiva: creare nuovi bisogni e nuove modalità per la loro assoluzione oppure cercare di ricavarsi un posto nel flusso dei follower di mercato?
Disruption, sparigliare per innovare
Nel pieno dell’era digitale viene facile pensare che la disruption possa arrivare sempre e solo dalla tecnologia. Ma non è così. Prima di tutto perché la tecnologia stessa interviene nel processo di pura innovazione non quando semplicemente accelera dinamiche tradizionali (la robotica per la manifattura, la videosorveglianza per la sicurezza), ma quando introduce nuovi paradigmi nella costruzione e nell’interpretazione della realtà (Amazon che diventa anche piattaforma video con Prime, Uber che rivoluziona la mobilità fisica attraverso il digital mobile).
Disurptive, dunque, è principalmente un modo nuovo di pensare, che introduce interazioni inedite e sovverte le logiche correnti. Ma è anche un’interpretazione diversa della realtà, laddove quello che non c’era prima nasce da una ricollocazione fuori dagli schemi di elementi e dinamiche pre-esistenti.
La disruption è ciò che con linguaggio colloquiale potrebbe dirsi sparigliare ovvero staccare pezzi di sistema (di produzione, commerciale, di consumo, sociale, di conoscenza, di percezione, di pensiero), tra di loro abbinati, e usarli diversamente in nuove pariglie, in nuovi sistemi caratterizzati dal segno dell’evoluzione.
Si tratta di una concezione aperta della realtà e della sua continua costruzione, in grado di superare gli steccati degli ambiti disciplinari e di contaminare mondi che potrebbero apparire per nulla contigui.
È per questo che la disruption è considerata il principale driver dell’open innovation ovvero il modello aziendale che persegue l’innovazione attraverso il superamento della monolitica Divisione ‘Ricerca & Sviluppo’ interna a favore degli apporti esterni: idee, competenze, processi e strumenti sviluppati da terzi, anche in ambiti produttivi diversi da quello di riferimento.
Impattare sulla realtà con l’open innovation
Il concetto di innovazione aperta comincia a ispirare i modelli di organizzazione aziendale a partire dal 2003, quando l’economista statunitense Henry Chesbrough lo teorizza come risposta possibile alla standardizzazione dei processi di globalizzazione, che accelerano i cicli di vita dei prodotti e concorrono alla saturazione dell’offerta, fagocitando gli investimenti in diversificazione.
L’open innovation si contrappone al modello classico della closed innovation ovvero la ricerca a porte chiuse, condotta all’interno delle imprese secondo una chiave di lettura circoscritta entro il perimetro delle proprie risorse e incline a considerare l’eccesso di protezionismo un vantaggio competitivo.
Il paradigma dell’innovazione aperta, invece, assomiglia più all’open source nell’informatica. Ritiene una limitazione i confini aziendali interni e, di contro, considera una via per creare valore l’apporto di strumenti e competenze che arrivano dall’esterno: startup, università, istituti di ricerca, stakeholders, fornitori di beni e servizi, economisti, giuristi, creativi, venture capital, concorsi, talent scouting, incubatori e acceleratori d’impresa. L’obiettivo dell’open innovation è acquisire soluzioni sperimentate da altri – quand’anche in altri campi e in altri contesti – e internalizzarle nei propri processi gestionali e produttivi, creando di fatto sistemi nuovi, in grado di impattare sulla realtà e di accorciare il time to market.
Raccolta e osmosi negli Open Innovation Center
Il rapporto tra fronte interno aziendale e fronte esterno in un processo aperto di innovazione può essere modulato in forme differenti e attraverso modalità di vario genere. Nei casi meglio strutturati, il processo viene articolato all’interno di un Open Innovation Center aziendale ovvero un think thank, guidato da un Advanced Advisor e partecipato da figure professionali di raccordo.
L’Open Innovation Center raccoglie gli elementi provenienti da soggetti esterni e li funzionalizza in nuovi sistemi di produzione e/o nuove articolazioni socio-economiche. Ma il processo spesso è biunivoco, con contaminazioni reciproche e creazioni di nuove varianti, come in un divenire osmotico fatto di stimolazioni in entrambe le direzioni.
Grandi multinazionali come Samsung, la farmaceutica Lilly, e in Italia Banca Sella, Ferrero, Enel, hanno aperto i loro Open Innovation Center.
E se ne sono dotati anche sistemi territoriali come quello dell’Oltrepò Pavese, che lo ha orientato ai campi dell’agricoltura e del turismo ambientale, mettendo in circolo specifiche competenze: biologia vegetale, scienze forestali, scienze naturali, agronomia, entomologia, viticoltura, coltivazioni erbacee, ecologia, zootecnia e biologia animale, geologia, eco-turismo, protezione ambientale, economia e sviluppo in ambiente rurale, comunicazione, formazione ed educazione.
La sfida di LifeCity World
Candidandosi come generatore di futuro, anche LifeCity World raccoglie la sfida dell’innovazione aperta, applicandola ai grandi temi della salute e dell’alimentazione e coniugandola con le possibilità di protezione e controllo offerte dalla blockchain.
Grazie a un Open Innovation Center di prossima costituzione, la produttività delle cittadelle LifeCity risponderà a un modello di tracciabilità alimentare trasparente, incorruttibile e sicuro, garantito della blockchain.
Alla stessa maniera, anche l’online marketplace di LifeCity World, tuttora in corso di progettazione e sviluppo, sarà gestito su una piattaforma cloud, collegata alla tecnologia blockchain e partecipata dal network dei partner, dei clienti e di tutti gli attori coinvolti nel progetto integrato LifeCity.